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I volti dei medici nelle foto di Paglione: lo sguardo che comunica quando la parola non c’è

Una delle immagini realizzate da Jahela Paglione per "La cura dello sguardo"

Cultura

I volti dei medici nelle foto di Paglione: lo sguardo che comunica quando la parola non c’è

Un viaggio per immagini dentro le emozioni e gli sguardi di chi ha vissuto in prima linea l’emergenza Covid. Così si può riassumere il progetto “Covid19 – La cura dello sguardo”, che ha visto protagonisti medici, infermieri e personale sanitario del reparto pneumologia dell’ospedale Sacco di Milano. A realizzarlo due giovani professioniste: la brugherese Jahela Paglione, fotografa, e Alessia Radaelli, videomaker.

Attraverso ritratti fotografici e un video di quindici minuti (si trovano su www.jahelapaglione.it/portfolio-items/covid19/ hanno voluto portare alla luce l’esperienza di chi ha lavorato in uno dei centri nevralgici nella gestione della pandemia. Il risultato è un racconto essenziale, ma profondamente toccante, dove gli sguardi fanno da protagonisti e le voci si alternano nel ripercorrere i giorni più duri dell’emergenza: il senso di impotenza, lo sconcerto e la paura di fronte alla morte, ma anche la solidarietà tra colleghi e i piccoli gesti di cura e attenzione.
Abbiamo incontrato Jahela Paglione, ideatrice del progetto.

La fotografa Jahela Paglione
Jahela Paglione

Com’è nata l’idea di realizzare questo progetto?
Durante il periodo del lockdown ho sentito l’esigenza di fare qualcosa. Pensavo alle persone che in quel momento stavano male, a chi lavorava negli ospedali e faceva turni su turni, mentre io ero a casa, tutta concentrata su di me, a ripensare alla mia attività, riorganizzare la mia vita.
Mi sono detta: possibile che io non possa fare niente? Così ho contattato un’amica che lavora come infermiera all’ospedale Sacco di Milano e, una volta avuto l’ok da parte dei primari, ho coinvolto anche Alessia, che è stata subito entusiasta di partecipare. Ci conosciamo dai tempi dell’università e condividiamo da sempre la passione per raccontare storie e l’interesse per i temi sociali.

Al centro del vostro racconto ci sono i volti e i racconti di medici e infermieri. Perché questa scelta?
Durante l’emergenza, i giornali hanno descritto molto bene la situazione attraverso numeri, fatti, dati, etc… Tutti sapevano cosa fosse il Covid ed erano informati su che cosa bisognasse fare. Nessuno però forse sapeva che cosa stessero vivendo le persone che lavoravano in prima linea, quali relazioni ci fossero tra medici e pazienti. Volevo che ci si concentrasse su questo, guardando al mondo emotivo delle persone coinvolte, alle esperienze vissute piuttosto che ad una semplice descrizione dei fatti.

Quando e come avete realizzato il progetto?
Abbiamo iniziato a pensarci durante il lockdown, preparando un testo che spiegasse e presentasse il progetto ai primari del reparto. Le riprese sono state effettuate poi a giugno, quando il reparto covid era stato appena chiuso. Da quel momento abbiamo lavorato sui video e le foto, fino all’uscita il 21 settembre. Una delle cose che ci ha occupato più tempo è stata la scelta del titolo, volevamo che avesse un senso preciso e che già potesse “parlare”. Da qui la scelta “La cura dello sguardo”.

C’è qualcosa che vi ha sorpreso nel realizzare le foto e le interviste?
Sicuramente ci ha stupito vedere medici ed infermieri così entusiasti di raccontarsi, ma allo stesso tempo ancora scossi, molto provati psicologicamente, con la paura di commuoversi. Dai loro racconti si percepiva poi molta umanità: da chi usciva apposta per prendere il gelato per i pazienti, all’infermiera che ha asciugato gli occhi di un malato che non era più in grado di farlo da solo.

Che cosa vi ha colpito di più?
L’importanza dello sguardo. Molti pazienti non potevano comunicare diversamente, e così anche medici ed infermieri. Questo mi ha fatto capire quanto spesso ci riempiamo di parole, di gesti, ma alla fine è lo sguardo, la cosa più semplice, più scontata, a metterci in contatto con il nostro io più vero. Ho compreso l’importanza di avere occhi capaci di guardare l’altro in modo amorevole, uno sguardo sugli altri che sia bello e non di giudizio o di accusa. Lo sguardo è un modo di comunicare molto più profondo, che porta con sé anche una responsabilità. Ci ha colpito molto anche l’unità tra tutto il personale, il fatto che insieme hanno lavorato per uscire da questa tempesta. Se qualcuno era stanco, c’era sempre un collega pronto ad aiutarlo. Anche per i pazienti è stata molto importante questa unione: se qualcuno ti aiuta, lavori meglio. È stato fondamentale non sentirsi soli.

Avete nuovi progetti in cantiere per il futuro?
Ci piacerebbe proseguire un progetto che avevamo iniziato sulla realtà dei migranti, e affrontare il tema della violenza contro le donne. Un’altra tematica che ci sta a cuore è quella dell’abbandono degli animali. Quello che vorremmo fare attraverso i nostri lavori, non è dare delle risposte, ma raccontare alcune tematiche dal punto di vista emotivo, che non significa sentimentale. Vorremmo portare le persone a ri-allenare un aspetto dell’essere umano che crediamo si stia un po’ dimenticando: la capacità di provare empatia per un’altra persona, del farsi vicino al dolore dell’altro. È importante sentirsi coinvolti sempre nel dolore o nella difficoltà dell’altro, perché è questo che poi porta a sentire il dovere di fare qualcosa di buono per gli altri.

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